Quella Olimpica non è mai una gara come le altre. Tutto viene stravolto, e il confine fra la gloria e il fallimento, fra il sogno e l’incubo è sottile.
Non è tutto oro quel che luccica. Può essere argento o bronzo, un po’ più sbiadito ma in fondo è sempre meglio che niente, il niente che resta in mano ai mille e mille che per l’Olimpiade transitano appena un attimo, per poi tornare a casa a cuore sgonfio e collo vuoto.
Strana bestia, l’Olimpiade. Difficile da cavalcare, per chi – come noi che viviamo negli alveoli della notizia, eroi di un piccolo ghetto pressoché ignoto ai più – si avventura senza occhiali da sole nel bagliore di quest’evento clamoroso. Tutti i viaggiatori che sono riusciti a montare su questo pantagruelico carrozzone, anche il più umile gregario del plotone dei ciclisti, possono godere di quello che un po’ somiglia al quarto d’ora di celebrità che Warhol destinava ad ogni uomo moderno. Le pressioni, le aspettative, l’ascesa divina che sono il quotidiano di uno come Higuain un po’ scombussolano il sistema cognitivo di un atleta abituato a vivere in un rilassante cono d’ombra e a ritagliarsi il suo bell’articolo di pagina interna; via via che i giorni passano e il grande evento si avvicina, i sogni montano e sinanche l’impossibile – l’irrazionale – comincia a farsi strada in un’immaginazione ormai stravolta.
Sognare non è proibito, e l’intero sistema Olimpico porta a sognare anche l’outsider. Un sogno senza paracadute: l’Olimpiade è il più cinico tra i concorsi umani, elegge tre divini e fa strame di tutto il resto. E così ci capita di veder salire al cielo uno dei nostri, e il giorno dopo un altro. Lo vediamo risucchiato nell’Olimpo, improvvisamente sottratto al gruppo di noi tutti che andiamo a mensa nel villaggio confusi tra i tanti. E improvvisamente pensiamo che domani potrà toccare a noi, il mondo ce lo dice, gli amici lo invocano sui social. Andiamo a letto con una strana sensazione addosso: potrebbe essere appena trascorso il nostro ultimo giorno da uomo comune.
Il risveglio, quando le luci si spengono e le strade si biforcano – loro verso la folla e il lucore dei flashes noi solitari nel buio di una porta laterale – è una vera e propria caduta nel vuoto. La sconfitta, alle Olimpiadi, somiglia molto a una dissoluzione.
L’importante è partecipare, e alla fine tutto sommato si può sempre dire che ne è valsa la pena; però vincere, caro il mio Barone, è tutta un’altra storia.
Dino Meglio
Foto di Augusto Bizzi per Federscherma
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