Il regista di Tutti giù per terra ha pubblicato un libro sulle sue due grandi passioni. Lui che da giovane è stato fiorettista di ottimo livello e che ora si disimpegna con successo tra i Master. L’intervista.
Davide Ferrario era un bambino appassionato dei film di cappa e spada quando cominciò a fare scherma. Oggi, che di anni ne ha 61, è un regista affermato ma continua a tirare di fioretto. L’ha fatto fino ai 40 anni, poi si è fermato per una decina, quindi ha ripreso folgorato sulla via di Torino 2006. Galeotto fu il Mondiale organizzato nella città in cui si era trasferito lasciando Bergamo, galeotte furono le chiacchierate con gli amici di un tempo e la scoperta di questo nuovo mondo, i Master, in cui da allora è tornato a gareggiare con ottimi risultati. Così, quando Fabio Geda, autore di “Nel mare ci sono i coccodrilli” e curatore della collana Narrazioni combustibili di Add Editore, gli ha proposto di scrivere un libro che mettesse in relazione i suoi due mondi, Ferrario ci ha pensato un po’ su e ha partorito “Scherma, Schermo” (Add Editore, 141 pagine, 13 euro).
Un parallelo che sembra azzardato e stiracchiato finché non si apre il libro e si scopre che in realtà i due mondi si sovrappongono in tanti punti. Quando te ne sei reso conto?
Avrei avuto gli stessi dubbi anche io, se non fosse stato che Fabio Geda ha scoperto che io tiravo di scherma e mi ha chiesto di scrivere un libro così. A quel punto ho detto “che idea…”, ma poi ho cominciato a rifletterci e mi sono venute in mente tutte le similitudini che riporto nel libro. In fondo c’è una logica per cui io ho fatto sia il regista che lo schermidore, una matrice caratteriale che risponde alle due cose. E avendo esperienza di entrambi i mondi avevo delle cose da mettere a confronto e così sono venute fuori riflessioni come quelle sulla maschera e sul personaggio. Non penso siano la verità assoluta sulla scherma, ma una delle verità possibili su questo sport che è una messa in scena, ha qualcosa a che fare col teatro.
Nell’affermare che l’esperienza fondante della tua vita è la scherma, e solo in seconda battuta il cinema, aggiungi che il cinema senza la scherma non sarebbe mai stata la stessa cosa. Perché?
Prima di anche solo pensare che avrei fatto del cinema la mia professione, c’è stata la scherma. Il mio carattere si è fatto in pedana e senza scherma non sarei quello che sono. Imparare la disciplina schermistica è stata un’esperienza estremamente formativa. Chi fa i film è inevitabilmente caratterizzato da una forte autostima anche per tirarsi dietro tutte le persone che sono coinvolte, da chi ti dà i soldi agli attori e le maestranze. Io sono diventato questo in pedana, non perché sono stato uno schermidore troppo bravo o vittorioso, ma è stato proprio il continuo confronto con la sconfitta e il cercare di migliorare che mi ha costruito.
Ora sei un ottimo atleta Master. Da giovane sei stato un fiorettista di alto livello, hai partecipato a prove di Coppa del Mondo. Hai il rimpianto di non essere riuscito a fare l’ultimo passo necessario per competere coi migliori in un’Olimpiade o un Mondiale?
Lo racconto nel capitolo in cui parlo della chiacchierata con Mauro Numa nello spogliatoio. Un episodio che lui non ricorda, ma per me fu rivelatore. Speravo di arrivare il più lontano possibile, poi conosci persone più giovani, più forti e che investono nella scherma un tempo che tu non hai e non avrai mai. Già si affacciava il cinema nella mia vita, facevo un part-time in un cineforum. Quel giorno, quando Numa mi ha raccontato quante ore al giorno si dedicava agli allenamenti, ho capito che non sarei arrivato fino in fondo ma non ho buttato il bambino con l’acqua sporca, ho continuato a fare scherma.
Hai anche smesso e poi ripreso.
Ho fatto quello che fanno tanti. Arrivi ai 20 anni, capisci quello che vali nel bene o nel male, resti attaccato alla scherma ma la relativizzi. Facevo l’assistente, l’istruttore per i ragazzi, ho fatto l’arbitro anche in una prova di Coppa del Mondo a Legnano. Era anche un modo di guadagnare qualche soldo rimanendo attaccati alla scherma. Quando ho iniziato a lavorare sul serio nel cinema è diventata un hobby. Non l’ho mai mollata fino ai 40 anni, quando mi sono trasferito a Torino e mi sembrava un cambiamento fondamentale. Ho chiuso la sacca e ho pensato fosse una pagina chiusa. Poi 10 anni dopo sono arrivati i Mondiali a Torino, sono andato a vederli e ho incontrato tanti amici di un tempo, abbiamo parlato dei Master e da lì è ricominciato tutto.
Tra i paralleli che tracci c’è quello della maschera. Quando te la cali sul volto dici di sentirti un’altra persona, un Davide Ferrario diverso. Come accade questo?
Mi è servito molto lavorare nel cinema con gli attori per capire cosa significhi. L’attore è ancora quella persona, ma ha la possibilità di trasformarsi in un altro personaggio pur rimanendo lui. Si tratta di un meccanismo insieme miracoloso ma normalissimo, dentro la natura dell’uomo. Succede anche quando vai in pedana, forse in tutti gli sport c’è una forma di rappresentazione, ma la scherma è diversa. Per noi in più c’è la maschera che fa sparire il tuo volto, e non è un caso che maschera sia un termine teatrale.
E quando sparisce il volto che succede?
Io tiro meglio quando mi dimentico di essere me stesso, una cosa che non ha tanto a che fare con l’essere allenato o no. Tu diventi un altro, un personaggio con la mentalità vincente, che puoi avere lì ma non nella vita. Ci sono casi di schermidori che nella pedana sono vincenti e nella vita no. Quando ti togli la maschera ritorni nell’altra vita e torni a essere normale. Divisa e maschera sono elementi che conferiscono una ritualità diversa alla scherma, che altri sport non hanno. Se non entri in parte tiri male perché pensi troppo alla tua parte, come l’attore che pensa troppo al suo personaggio recita male.
Tu definisci la scherma “un film per tutti”, giovani e meno giovani, uomini e donne. Recentemente il mondo del cinema non ha mostrato lo stesso livello di egualitarismo, mi riferisco in particolar modo alle vicende di molestie sessuali ma anche a tante altre questioni di genere come la disparità di salario e di rappresentanza nelle posizioni di potere. Le scherma è avanti in questo?
Direi di sì. Nel senso che davvero nella scherma, già 20 anni fa, potevi avere un arbitro donna e nessuno ne faceva un problema, a differenza di altri sport come il calcio. Questa democrazia è nella natura della scherma, nessuno di noi in sala si pone il problema di andare a tirare con una donna, si sa che c’è una piccola questione su forza fisica e velocità, ma non sono quelli gli elementi determinanti. E direi che il maggior contributo alla popolarità della scherma italiana l’abbiano dato le donne, con la Vezzali e la squadra di fioretto femminile. La scherma mette tutti sullo stesso piano, lo fa anche coi disabili. Nell’atletica leggera è molto complicato gestire la disabilità, sulla scherma è molto più semplice, basta sedersi su una sedia e colpirsi senza muovere le gambe. Non so perché è così, ma è una cosa molto positiva che c’è nel nostro sport che mette le persone sullo stesso piano di uguaglianza. Poi dal punto di vista dirigenziale forse la sproporzione esiste, ma forse è un discorso che ha a che fare più con la politica.
Ci sono schermidori che secondo lei sarebbero dei buoni attori?
Rispetto alla mia teoria per cui in pedana si è tutti attori in qualche maniera è molto probabile che gli schermidori sarebbero bravi su un set. Potrebbero davvero avere una naturale tendenza alla recitazione.
E attori che vedrebbe bene in pedana?
Praticamente tutti gli attori sono costretti a fare stage combat e imparare un po’ di scherma. Bisognerebbe provare a metterli in pedana, sarebbe un esperimento interessante, fermo restando che ci vogliono anni per produrre uno schermidore competitivo, non puoi prendere un attore e trasformarlo in uno schermidore con pochi allenamenti. Devo dire però che quando gli attori provano la scherma senti che questo mondo gli ha toccato qualche corda.
Perché non ha mai fatto un film sulla scherma?
Film su altri sport si possono fare, come “Ogni Maledetta Domenica” di Oliver Stone, ma da noi c’è il problema della maschera: sarebbe come andare a vedere una tragedia greca oggi, come veniva rappresentata all’epoca, o al teatro giapponese del kabuki. La maschera ti toglie la possibilità di raccontare l’emotività sulla faccia dell’attore. Diverso è se si parla di un duello, ma non è più il nostro sport. Si possono raccontare storie di schermidori particolari per cui la scherma diventa una metafora, una parte della storia ma non la storia stessa.
E un documentario?
Da quando ho ricominciato a fare i Master sono tempestato da questa domanda. Per anni scherma e cinema sono stati per me due mondi totalmente separati ed era bello così. In parte lo è ancora, quando salgo in pedana non sono Davide Ferrario il regista. Però almeno un documentario sulla scherma lo si potrebbe fare e non è detto che, andando avanti, non lo faccia. Anche se mi avessero chiesto di scrivere un libro sulla scherma avrei detto di no, quindi mai dire mai. Ma sarebbe un documentario molto visivo che lavori tanto sul gioco maschera su maschera giù.
Twitter: GabrieleLippi1