L’atleta padovana in estate è partita per l’Africa offrendo il suo servizio come dentista volontaria. Ci siamo fatti raccontare la sua esperienza.
Il cuore conserva ciò che l’occhio ha visto. E nei suoi venti giorni in Burundi, Marta Nocent di ricordi da portarsi per sempre nel cuore ne ha fatto il pieno: colori, sorrisi, la gioia semplice di chi, pur non avendo quasi nulla, vive comunque felice per quel poco che ha. Lo cullava da tempo questo viaggio, l’azzurra della sciabola paralimpica medaglia d’argento Mondiale ed Europea a squadre, ma gli impegni di studio e, soprattutto, l’incidente in moto che nel 2007 fu spartiacque della sua vita, hanno sempre fatto slittare il progetto.
Ma, come i grandi amori, anche le idee covano lente sotto la cenere in attesa della scintilla che possa riaccendere il fuoco. E quando l’occasione si è presentata alla porta, Marta non ci ha pensato su un attimo ed è partita, assieme a una collega e al suo fidanzato direzione Africa per portare il proprio aiuto ma anche per conoscere di persona e senza filtri una realtà completamente diversa da quella della sua quotidianità nella provincia padovana. Le abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza.
Come è nata l’idea di partire?
Il volontariato in Paesi dove c’era bisogno di aiuto era già da tanti anni nei miei programmi, ancora prima che iniziassi a dedicarmi alla professione medica. Poi però ho dovuto mettere tutto in secondo piano dopo l’incidente perché pensavo fosse una cosa decisamente complicata, soprattutto a livello di accessibilità per i disabili in posti che non fossero l’Europa o gli Stati Uniti. Due anni fa, durante un Master, ho conosciuto una collega che mi ha raccontato di aver fatto esperienze in Burundi e questo mi ha riacceso “la lampadina”: così le ho detto di chiamarmi non appena c’era la possibilità di ripartire e quando lo scorso gennaio mi ha proposto di andare via con lei, ho accettato.
Come è stato il tuo impatto con la realtà di questo paese?
All’inizio decisamente traumatica. Più che altro perché ci capitava di vedere i pazienti che non salutavano nè ringraziavano, e questo ci aveva lasciato perlomeno perplesse. Ed è stato così per i primi due o tre giorni. Poi però, una volta calateci nella realtà del posto, abbiamo capito il motivo di questo atteggiamento diffidente.
Ovvero?
Tecnicamente laggiù ci dovrebbe essere una Repubblica Presidenziale, ma in realtà chi governa lo fa in maniera tutt’altro che democratica, al punto che sta lavorando a modifiche costituzionali per restare in carica fino al 2034. Inoltre lui controlla tutti i mezzi di comunicazione e non investe per nulla nella scolarizzazione, e infatti c’è un tasso di alfabetizzazione bassissimo, e ha fatto passare il messaggio – tramite cacciata di tutte le Ong – che si può fare tranquillamente a meno dell’aiuto esterno dei bianchi.
Una sorta di “razzismo al rovescio”, se così possiamo definirlo…
Si, esatto. Questo è ciò che viene fatto credere a loro e da qui ne nasce la diffidenza.
Poi, a quanto mi pare di capire, tutto si è risolto per il meglio.
Probabilmente il passaparola si è diffuso nel modo giusto, hanno capito che eravamo gentili e buone e come dal nulla ci siamo trovati con tantissime persone a cui dare assistenza ma soprattutto, con tante persone gentili.
Cosa ti ha colpito di più di quei posti?
Gli occhi dei bambini e la loro felicità malgrado non abbiano niente. Come vestiti hanno stracci coi buchi e come unico gioco, palloni fatti con quello che trovano. Eppure sono sempre sorridenti ed è stato il sorriso più vero che abbia mai visto in vita mia.
Prima di partire, hai scritto «In questo viaggio spero di lasciare tante cose e di tornare a casa avendo bene in mente cosa sia l’essenziale». Cosa ti ha lasciato questa esperienza sotto questo punto di vista?
Dare meno peso alle cose di cui si può fare a meno. Sicuramente è una banalità, ma si riscopre l’importanza di quelle cose che non si comprano, come gli affetti, le soddisfazioni o le stesse esperienze che fai. Ciò di cui mi sono accorta lì è che persone felici pur non avendo soldi ce n’erano e anche tante. Sotto questo aspetto, sono riuscita perfettamente nel mio intento, ovvero riscoprire le cose veramente importanti della vita ma non solo: volevo calarmi in prima persona in una cultura totalmente diversa dalla mia senza i filtri che si hanno quando si va a visitare questi luoghi come turista nei villaggi vacanza.
Il tuo contributo però non si è limitato solo all’assistenza medica ai pazienti.
Nella missione in cui sono andata, c’era un ragazzo che stava prendendo diploma di dentista e noi lo abbiamo aiutato a completare la sua formazione. Ed è stata questa forse la cosa più bella, perché ha permesso di dare continuità a un lavoro che altrimenti sarebbe stata la più classica delle gocce in un oceano: aiuti quello sessanta, settanta o cento persone e poi però non lasci niente. Invece così abbiamo creato un qualcosa che tuttora funziona, perché ora questo ragazzo lavora nella missione, e che ancora porta benefici alle persone che ne hanno bisogno.
Rifaresti questa esperienza?
Si ma andrei in altri posti. Perchè vorrei esplorare nuove realtà.
Twitter: agenna85
Fotografia Augusto Bizzi
.