Vent’anni dopo la vittoria di Alessandro Puccini ad Atlanta 1996, Daniele Garozzo mette giù la gara perfetta e, dopo aver battuto Massialas in finale si laurea campione Olimpico nel fioretto maschile. Per l’Italia è l’oro 201 nella sua storia a Cinque Cerchi.
Di quel 7 agosto 2016, c’è un immagine destinata a diventare iconica. Due fratelli, partiti da Acireale, uniti dalla scherma e divisi soltanto dall’arma scelta e dal cuore calcistico, si stanno abbracciando ai lati della pedana della finale della Carioca Arena. Spadista Enrico, il maggiore dei due, fiorettista Daniele, Garozzo entrambi. Per il primo la gloria sarebbe arrivata qualche giorno più tardi, ed è un’altra storia; in quel momento, invece, al centro della festa c’è proprio il piccolo di famiglia, il destinatario del boato da stadio proveniente dagli spalti. Da qualche parte, in mezzo a quel tripudio incontrollato di tricolori italiani, c’è papa Salvo: è rivolto a lui il pugno al cielo appena messa la stoccata 15 contro Massialas. Ma c’è anche Alice Volpi, che si lascia andare a un pianto incontenibile di commozione in attesa di abbracciare il suo eroe appena diventato campione Olimpico nel fioretto maschile.
Quella che Daniele Garozzo ha appena conquistato è la medaglia d’oro numero 201 della storia Olimpica italiana. Questione di pochi minuti e sarebbe toccato a lui fare cifra tonda, ma l’onore di toccare quota 200 se lo era da poco preso Fabio Basile, ventiduenne judoka torinese, che con un solo “ippon” aveva mandato schiena a terra il coreano An Baul e si era preso l’intera posta. Duecento o duecentouno alla fine poco importa: vent’anni dopo Alessandro Puccini ad Atlanta 1996, l’Italia è nuovamente sul gradino più alto del podio della prova individuale di fioretto maschile e sotto quel titolo c’è impressa a fuoco la firma di Daniele Garozzo.
Fra le due medaglie, quella di Puccini da Pisa e di Garozzo da Acireale, in realtà ci sono molte similitudini. Come il pisano nell’Olimpiade griffata Coca Cola, allo stesso modo l’acese Garozzo non partiva alla vigilia coi favori del pronostico, malgrado fosse stato nelle ultime stagioni uno dei nomi nuovi finiti il maggior numero di volte sui proverbiali taccuini dei giornalisti di Tommasiana memora. Il primo podio nello scenario prestigioso di Parigi nel 2015 è il trampolino di lancio verso un ascesa folgorante: arrivano altri due podi in Coppa del Mondo e la medaglia d’argento agli Europei di Montreux, con Andrea Cassarà per la quinta volta re continentale e la festa completata da Edoardo Luperi. Ancora non lo si poteva sapere, ma la semina del raccolto poi incassato a Rio era già cominciata.
In poco tempo, Daniele Garozzo diventa uomo cardine nella squadra di Andrea Cipressa, che in lui ripone assoluta fiducia. Si guadagna il suo posto nel quartetto a scapito di uno degli eroi di Londra 2012, ovvero Valerio Aspromonte. E un altro protagonista assoluto dell’oro a squadre in Gran Bretagna, Andrea Baldini, si deve accontentare di vivere Rio 2016 nella veste di riserva per la gara a quartetti. Ma nel giorno più bello del giovane siciliano, il primo a complimentarsi con lui sarà proprio il Baldo, l’amico e chioccia che malgrado la rivalità in pedana non ha mai lesinato su consigli e suggerimenti.
L’Olimpiade è una bestia strana. Del resto la storia è piena di plurititolati campioni e campionesse che si sono duramente schiantati contro la loro personalissima “maledizione olimpica”. Nel caso migliore, salendo comunque sul podio ma non sul gradino più alto; in quello peggiore, tornando a casa con la sacca vuota e il morale sotto i tacchi. Alle Olimpiadi non serve essere il più forte – o meglio, non basta; esserlo in fin dei conti non guasta mai – ma serve sentirsi in quel giorno il più forte. Staccare il cervello e non pensare al contesto, al fatto che quella gara capita una volta ogni quattro anni o, peggio, una volta sola nella vita, perché sa il cielo cosa può succedere fra quattro anni.
Ed è stata proprio la forza mentale quella che ha permesso a Daniele Garozzo di scalare con successo il tabellone fino a issarsi fin lassù, nell’Olimpo del fioretto maschile. Scollinando agevolmente – ma contro avversari tutt’altro che agevoli, come l’argento di Londra Abouelkassem e l’amico di mille allenamenti Guillherme Toldo, supportato anche da un tifo infernale del pubblico di casa – i primi assalti fino alla semifinale e poi alzando l’asticella della propria scherma quando il gioco si è fatto ancora più duro. Ne sa qualcosa Timur Safin, ingabbiato dal siciliano e costretto alla finalina sul 15-8. E ne sa qualcosa anche Alexander Massialas. Tipo tosto il ventunenne americano, già capace l’anno prima ai Mondiali di Mosca di arrivare all’argento: ai quarti di finale era a un passo dall’eliminazione per mano di Giorgio Avola, ma dal 9-14 è riuscito a ribaltare tutto e portarsi a casa il match sul 15-14.
Contro Daniele, però, la storia è ben diversa. L’assalto è un monologo del siciliano, che vola via fino al 14-8 e solo il gong di fine primo round impedisce una conclusione più rapida della contesa. C’è ancora vita per Massialas, che ci prova a rimettere tutto in gioco ma stavolta deve alzare bandiera bianca. Tutto si svolge in un attimo: l’americano prova l’attacco e non trova il bersaglio,e quando Alex prova a sfuggire, Daniele fiuta che è arrivato il momento di prendersi tutto il bottino. Punta sulla schiena dell’avversario, luce accesa, sipario. E poi la corsa per tutto il palazzetto, esultando come un calciatore che ha appena picchiato in porta il più decisivo dei gol decisivi, il pugno verso gli spalti, dove c’è suo padre e l’abbraccio con il fratello ai lati della pedana.
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Foto: Augusto Bizzi