Storie olimpiche – Sangyoung Park, quando l’impossibile diventa possibile

Con una clamorosa rimonta nel finale contro l’ungherese Geza Imre, il coreano Sangyoung Park centro l’oro Olimpico a Rio 2016 nella spada maschile.

 

Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco. Da saggio uomo di campagna, Giovanni Trapattoni ha sempre ripetuto quella frase come un mantra. Anche a costo di inventare lì per lì una maccheronica traduzione ad uso e consumo di basiti giornalisti irlandesi che malcelavano l’imbarazzo di non riuscire ad afferrare quella perla di Trap-pensiero. Il metaforico “gatto” che Geza Imre, in quel pomeriggio di Rio con in palio il titolo individuale di spada maschile, aveva quasi messo nel sacco aveva le fattezze della medaglia d’oro Olimpica.

Che storia quella del magiaro. Medaglia di bronzo nel 1996 ad Atlanta, l’anno precedente a Mosca si era preso a 41 anni l’oro Mondiale. E 365 giorni dopo è in finale alle Olimpiadi per completare una doppietta che avrebbe del clamoroso e gli regalerebbe un finale di carriera da leggenda. Perché Geza Imre, in carriera ha vinto tantissimo: mettendosi in proprio (un Europeo e un Mondiale), ma anche con la squadra. Concludere con la consacrazione massima sarebbe stato qualcosa da raccontare a figli e nipoti fino alla sfinimento e oltre.  Non è mai troppo tardi per vincere e imporsi, anche se la carta di identità è tutt’altro che verde mentre tendente al colore della speranza è la linea composta da tanti giovani spadisti che provano ad affermarsi.

Fra i rappresentanti di questa new wave mondiale, c’è un coreano classe 1995. Si chiama Park – più coreano di così…- Sangyoung e quando Geza Imre conquistava la sua medaglia di bronzo ad Atlanta, era poco più di un lattante. La scherma sarebbe arrivata più tardi nella sua vita, convinto ad avvicinarsi ad essa da un insegnante durante il percorso scolastico. Il ragazzo, spada in mano, ci sa fare alla grande: alle grandi doti fisiche unisce un repertorio schermistico pressoché completo. E ben presto gli avversari imparano a fare i conti con lui.

Nel 2014, a diciannove anni, si presenta al grande pubblico vincendo le gare Grand Prix a Doha prima e a Berna poi. L’Ungheria è nel suo destino: nel 2015, durante il Grand Prix di Budapest, il ginocchio fa crack e la diagnosi è un biglietto per un poco gradito viaggio in sala operatoria. C’è da ricostruire un legamento ma soprattutto, una volta tornato a calcare le pedane, una classifica. La lontananza dalle gare dura quasi un anno, ma il rientro è di quelli da incorniciare: terzo posto a Vancouver, nel giorno in cui Enrico Garozzo porta a casa il suo primo successo in Coppa del Mondo. A fermarlo, proprio il carabiniere acese.

L’esultanza di Enrico Garozzo sul gradino più alto del podio di Vancouver

Rio De Janeiro, finale per l’oro della spada maschile. Geza Imre, ungherese, campione del Mondo in carica e a caccia della consacrazione, sta ingabbiando perfettamente un avversario che ha la metà esatta dei suoi anni. Sino alla vigilia della terza frazione, il match era sempre stato nelle mani dell’esperto spadista danubiano. Vero, non è riuscito a chiudere per tempo la contesa, ma tantissimi elementi giocano a suo favore. Serve solo calma e sangue freddo, mantenere la partita sui binari a lui più congeniali. Dall’altro angolo, tutto solo, Park è preso da un monologo con sé stesso. La frase che esce dalla sua bocca, ripetuta come un mantra è semplice ed immediata: «Ce la posso fare!» Una volta, due volte, tre volte. Enne volte.

Non la più semplice delle imprese, rimontare 4 stoccate con l’avversario a sole due botte dal traguardo. Park Sangyoung, però, sembra convinto, anche quando il già arduo piano viene ancora più scombussolato dalla stoccata numero 14 dell’avversario.  Non si può più sbagliare nulla: tosta già a pensarla mentre si è comodamente seduti sul divano, figurarsi in mondovisione, con in palio un oro Olimpico e con poco più di due minuti di tempo a disposizione. Arrivati a quel punto, sul 14-10 Imre, al coreano serve quello che avrebbe tutti i connotati del miracolo. Quattro stoccate da mettere senza subirne nemmeno una, almeno per rimettere tutto in discussione e avere la chance di giocarsi il tutto per tutto alla ventinovesima botta, mentre l’avversario può tranquillamente giocare con il cronometro e fare un ottimo affare concedendo colpo doppio.

Se lo sport fosse una scienza esatta, non sarebbe così bello ed emozionante. Quello che succede negli ultimi due minuti di quella finale, infatti, travalica il normale per sconfinare nell’incredibile. Accade ad esempio che Geza Imre, sin lì perfetto nell’imporre il proprio marchio al match, si faccia ingolosire dalla voglia di chiudere una volta per tutte la partita per andarsi a godere le note dell’inno ungherese. L’atleta più esperto, il veterano di mille battaglie, improvvisamente sembra aver spento la luce della ragione, tradito dalla fretta, la cattiva consigliera per antonomasia.

E se su di essa si innesta anche la frustrazione non appena le cose cominciano a girare storte, ecco che la bomba è innescata e il crollo, impossibile fino a qualche secondo prima, ineluttabile. In poco più di quaranta secondi il tabellino indica parità assoluta sul 14-14, ma ora l’inerzia del match pende pesantemente dalla parte di Sangyoung Park. E la sentenza arriva puntuale, quattro secondi dopo il pareggio. 15-14 Park e fine delle trasmissioni. Il gatto, sul più bello, era riuscito a liberarsi dal sacco di Geza per finire dritto in quello del giovane coreano. L’uomo che ha trasformato l’impossibile in possibile.

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