Il Maestro consiglia: “Tennis”

Il capolavoro di John McPhee sul match fra Ashe e Graebner a Forest Hill nel 1968 è il consiglio della settimana di Simone Biondi per la rubrica “Il Maestro consiglia”.

 

Descrivere un momento è una capacità che appartiene al tempo. Gli occhi sono i soli fruitori di un particolare gesto, azione, posa, cenno. In nostro aiuto sono arrivate le telecamere, i video di ciò che prima era raccontato solo alla radio o, addirittura, messo nero su bianco. Mai prima di John McPhee si è provato a descrivere una partita di tennis utilizzando punti, virgole, periodi semplici o complessi. Troppo complicato o forse troppo ardito. Si poteva incorrere nel semplice rischio di far annoiare chiunque leggesse, costringendolo ad abbandonare sotto un cumulo di polvere pagine scritte con tanta arguzia.

Ma la bravura di uno scrittore, che è stato giornalista ma anche novellista, sta nel saper raccontare con le giuste parole ciò che l’occhio, come dicevamo, è riuscito a estrapolare dal contesto. Ogni parola deve essere in grado di trasmettere sensazioni e odori, immagini e suoni; deve poter parlare come fosse un telecronista nel pieno del racconto.

Il consiglio della settimana

Chiamarlo <<libro>> potrebbe sembrare riduttivo, tanto quanto definirlo estratto. Il termine migliore, secondo la mia modesta opinione, per definire “Tennis” di John McPhee è saggio. Un itinerante viaggio tra i corridoi di un campo e le stanze di una casa, passando per i dritti su un vantaggio di 40-30 e arrivando a un flashback di quando non era così semplice come in quella semifinale.

Il racconto di Forest Hills del 1968 è un transito in un’America ancora fortemente condizionata da pregiudizi razziali (non che ora sia cambiato poi molto), dove ancora una volta una storia di sport prova a redimere il bigotto pensiero umano dell’epoca. Arthur Ashe è l’esaltazione del tennis di quel periodo. Nero. Clark Graebner è la possente descrizione del maschio forte che ricorda Superman. Bianco. Due avversari, due amici, che hanno regalato agli Stati Uniti quell’indimenticabile semifinale; e la vittoria, l’anno successivo, nella Coppa Davis.

McPhee trasporta il lettore in un campo, lasciando che scelga con che occhi guardare ogni frase, in che maniera esultare a ogni quindici. Inanella flashback di vita vera intervallati da brevi estratti di partita. O forse è il contrario? A chi legge l’ardua sentenza.

Una digressione con il factotum di Wimbledon rende il volume una vera e propria chicca della narrativa sportiva. Twynam racconta, in un incontro vis-à-vis, tutto ciò che sapeva, amava, conosceva, ricordava sui campi del circolo più famoso del mondo per quanto riguarda la superficie verde. Un occhio tecnicamente preparato tanto per il manto erboso quanto per i campioni che vi hanno trascinato le punte.

Leggere “Tennis” significa abbandonarsi alla descrizione di un momento che dura una vita, di due vite che ancora continuano, permettendo a chi decida di concimarsi l’anima con queste parole di essere parte integrante di questo racconto.

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