Un bronzo costruito sulle macerie

 

 

Una medaglia olimpica si consuma nel giro di mezza giornata. Comincia nel mezzo di una notte italiana, quando ancora l’alba è di là da venire, e finisce poco prima dell’ora di pranzo. È un attimo, una girandola di emozioni che si brucia in fretta, tra picchi di ansia, ondate di ottimismo, sonno spezzato. Ma una medaglia olimpica ha radici che affondano in anni di lavoro, in un’attesa lunga e dura. Il bronzo della Nazionale di spada femminile è un monumento al lavoro di squadra costruito sulle macerie. Per raccontarlo e spiegarlo dobbiamo partire dal fallimento di un’Olimpiade mancata quando sembrava impossibile non prenderla, da una ferita che ancora stenta a rimarginare e il cui dolore riaffiora ogni volta che ci si pensa.

Un evento traumatico che ha chiuso definitivamente un ciclo di grandi talenti e che ha lasciato un punto interrogativo sul futuro. L’Italia della spada femminile ha cambiato volto spesso in un quadriennio che si è fatto quinquennio, fino a trovare la sua forma definitiva e cementarsi intorno alle quattro protagoniste di una medaglia olimpica che mancava da 21 anni, dall’esordio della specialità ai Giochi, ad Atlanta ’96. Rossella Fiamingo e Mara Navarria, punti fermi e trait d’union col ciclo precedente, e poi un gruppo intorno a loro che ha visto alternarsi una mezza dozzina di atlete prima di trovare la quadra finale con Federica Isola e Alberta Santuccio.

Federica è la più piccola di loro, deve compiere 22 anni e incidentalmente è stata anche la migliore. Così tanto la migliore che il ct Sandro Cuomo, prima della finale per il terzo e quarto posto, l’ha presa da parte e le ha detto: “Chicca, chiudi tu”. All’improvviso, una ragazza partita per i Giochi senza grandi pressioni, si è ritrovata a gestire la più grande di tutte: scelta per mettere il punto finale a un match che valeva una medaglia. Non è stato facile, anche perché la Zhu ci ha messo del suo con una rimonta furiosa. E mentre il tempo scorreva, con 8 secondi ancora da disputare e una sola stoccata di margine, Federica ha ritrovato se stessa e il suo coraggio, ha smesso di scappare all’indietro, ha fatto un passo in avanti per chiudere la misura all’avversaria, ha preso il ferro e trovato il bersaglio.

Ci sono almeno un paio di istantanee che ci spiegano questo risultato. La prima è quella di Federica Isola che scoppia in lacrime al termine del suo match, lasciando andare tutta la tensione accumulata, circondata dalle compagne che la abbracciano. La seconda è quella di loro quattro sul podio che si infilano a vicenda al collo la medaglia di bronzo, quasi a voler ribadire ancora una volta che non c’è io, tu o lei che regga, c’è solo noi, splendido paradosso di uno sport individuale che non può prescindere dalla squadra.

Ci sono stati i tempi delle analisi degli errori, della ricerca dei responsabili. Ci sono stati e ci saranno ancora. Non oggi però, oggi è il giorno dei ringraziamenti per chi ha costruito questo gruppo. E poi per loro quattro, le atlete, quelle che alla fine vanno in pedana e fanno la differenza, che vincono, cadono e si rialzano per vincere ancora. Sarebbe bello che tutti iniziassero a vederle per ciò che sono: persone, esseri umani con le loro forze e le loro debolezze, sostenendole tanto nel successo quanto nel fallimento. È utopia? Forse, ma ci piace immaginare che sia possibile.

Twitter: GabrieleLippi1

Pianeta Scherma sui socialInstagram, TelegramFacebook

Foto: Augusto Bizzi