Il Maestro Giancarlo Toran racconta la sua esperienza e la sua carriera di Maestro di scherma. Secondo episodio.
Cosa significa essere un Maestro di scherma? Non si tratta semplicemente di allenare un atleta, prepararlo per le competizioni, renderlo ogni giorno più forte e portarlo ai massimi livelli. Si tratta, soprattutto e prima di tutto, di crescere dei giovani, mostrar loro la bellezza di uno sport meno “facile” dei giochi con la palla, scoprire le loro inclinazioni e assecondarle. L’esperienza dei grandi Maestri italiani sta lì, accanto ai bambini come a fondo pedana dei campioni. Lo spiega molto bene Giancarlo Toran, Maestro della Pro Patria et Libertate Busto Arsizio e custode della memoria storia della scherma italiana. Toran ha iniziato a pubblicare sul suo profilo Facebook una riflessione stimolata da un suo ex allievo che ha al centro proprio il suo modo di concepire il ruolo di Maestro. È uno scritto che porta con sé una testimonianza straordinaria e per questa ragione, d’accordo col Maestro Toran, abbiamo scelto di pubblicarlo anche noi a puntate sul nostro sito. Di seguito il secondo episodio. (CLICCA QUI PER IL PRIMO EPISODIO)
“Non si può non comunicare”, dice un noto assioma della comunicazione umana. Diamo informazioni anche quando non facciamo nulla. Anzi, a volte i silenzi dicono più delle parole. Purtroppo è meno conosciuto e utilizzato il modo di usarli consapevolmente, ed efficacemente. Ma andiamo con ordine. Saltiamo per ora a piè pari la comunicazione scritta e quella telematica, che pure recentemente hanno avuto – e probabilmente avranno in futuro – un ruolo molto importante, anche per noi che insegniamo scherma: pensa solo a quanti messaggi mandiamo e riceviamo, e come il contenuto e la forma di quei messaggi può produrre effetti in chi li riceve. Limitiamoci alla comunicazione diretta, oggi diciamo “in presenza”.
Il messaggio può essere di tipo verbale, paraverbale e non verbale, ed in genere ci si serve, in misura differente, di tutte queste modalità, contemporaneamente. Tendiamo a dare la massima importanza al contenuto esplicito del messaggio verbale, quando gli aspetti paraverbali (tono, volume, ritmo, pause…) e quelli non verbali (linguaggio del corpo) rappresentano certamente la parte più importante, dal punto di vista qualitativo e quantitativo. Per dare l’efficacia voluta a questa parte della comunicazione, la più significativa, bisogna essere consapevoli, il più possibile, di quello che trasmettiamo. E torniamo al punto dolente: non esistono metodi, manuali d’uso. Sono cose che si imparano, sì, con lo studio e l’esercizio, anche sui libri, ma non acquistano efficacia se non diventano parte di noi, della nostra natura. È un po’ come camminare, che facciamo ormai senza pensarci, ciascuno col suo stile, malgrado sia una cosa complicatissima: ci abbiamo messo anni per riuscire a stare in piedi e imparare…
Ora, mettiamoci di fronte al nostro allievo, e tentiamo di controllare tutti gli aspetti non verbali della nostra comunicazione: probabilmente se ne accorgerà, e non sembreremo sinceri. Se non abbiamo un vero interesse ed una vera disponibilità nei suoi confronti, il nostro intervento sarà meno efficace, o addirittura controproducente. Se invece questa disponibilità, interesse, rispetto, c’è, il corpo e la voce si adegueranno con naturalezza. Non si può fingere, dunque: prima o poi ci sgamano. Ma neanche gli altri possono farlo a lungo, e metterci nel sacco, se abbiamo affinato gli strumenti e la sensibilità per non farci imbrogliare.
Sai che sono meridionale, e mezzo napoletano: sono quindi avvantaggiato dalla gestualità appresa già nei primi anni di vita. Ma qualcosa in più l’ho imparata dai libri: se non altro, ad esserne consapevole. Altri, che lo sono meno, sono quasi un libro aperto per me: leggo abbastanza facilmente quel che c’è dietro le loro parole. Il linguaggio del corpo è rivelatore: nasconderlo è difficile, e prima o poi viene fuori la verità. Il potere degli occhi, e del sorriso.
Non solo non si può non comunicare: fortunatamente comunichiamo in modo ridondante. Si scambiano molte più informazioni di quelle necessarie, e per vari canali. Per me è stata una fortuna. Come sai, stavo diventando sordo del tutto, e anche ora che ho sistemato la cosa con un bell’impianto cocleare, non è che le cose siano perfette, specie in ambienti rumorosi. Quando ero giovane, e gli effetti degenerativi si facevano già sentire, mi aiutavo leggendo le labbra. Questo mi portava a guardare con molta attenzione il mio interlocutore, che si sentiva accolto e lusingato da tanta considerazione.
Avrai notato che i giovani di oggi, ancor più di quelli di ieri, fanno fatica a guardarti negli occhi. Il loro sguardo è spesso basso e sfuggente. Perdono molto, in questo modo. Bisogna aiutarli a sollevare lo sguardo: non solo per vederti, ma per guardarti. Un sorriso è sempre di grande aiuto. Anche le caramelle: ne faccio grande uso. Una dolcezza simbolica e materiale… Ci sono culture – non la nostra, per fortuna – in cui guardare negli occhi è considerato un comportamento aggressivo, di dominanza. L’atteggiamento del corpo aiuta ad attenuare questa sensazione. Gli occhi hanno anche un potere ipnotico: in certi momenti emotivamente carichi, uno sguardo intenso e diretto, accompagnato dal movimento assertivo della testa, può infondere determinazione e fiducia.
Ricorderai che ho lavorato un bel po’ anche sul dove e come guardare, durante un assalto di scherma. Da quello studio sono venute fuori interessanti applicazioni per la lezione, per l’importanza dell’attenzione coperta, per la sensibilità nel sentire la misura. Cose utilissime in assalto, come utile è stato insegnare ad alzare lo sguardo, nei momenti difficili: quando si è in crisi si tende a concentrarsi sulle sensazioni interne, e nel farlo si abbassa lo sguardo, perdendo il contatto con l’avversario. E perdendolo anche col maestro, che inutilmente cercherà di farti arrivare il suo messaggio, il suo suggerimento: bisogna lavorarci prima, in allenamento, in modo da riconoscere subito quella sensazione, e… alzare lo sguardo!
(continua…)
Giancarlo Toran | Biografia
Tarantino, ma oriundo napoletano per via del padre e della moglie, nota come la Toranna, ha incontrato la scherma quando, in genere, i più la lasciano: a 19 anni, all’Università, col Maestro Vittorio Bassetti, sciabolatore. Ha praticato con buoni risultati tutte le armi, prima da dilettante (classificato in tutte e tre, e prima categoria di spada e fioretto), poi come maestro (due titoli mondiali, ad Atene, spada e sciabola, e altre medaglie, e titolo italiano in tutte e tre), infine come Master (titolo italiano e un bronzo mondiale a squadre nella spada, ma da mancino). Dopo il diploma di Maestro presso l’Accademia di scherma di Napoli, nel ’75, ha insegnato per sei anni alla Nedo Nadi di Salerno, laureandosi in Scienze Naturali dopo essersi sposato, e dal 1980 presso la Pro Patria di Busto, dove dal 2012 è anche direttore del Museo dell’Agorà della scherma. Si occupa anche dei suoi due atleti non vedenti, entrambi vincitori di titoli italiani.
Presidente dell’Aims dal 1993 al 2008, si è occupato a lungo della formazione dei Maestri, ed ha scritto le “Dispense di spada”, poi adottate come testo per gli esami. Molte sono le pubblicazioni al suo attivo, per la Treccani, per la Fis (due volumi per celebrarne il centenario), oltre a numerosi articoli tecnici. Ultimi lavori, per ora, pubblicati di recente, una biografia della Maestra Marisa Cerani, e le memorie di Giuseppe Mangiarotti.
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Foto Alessandro Gennari