Il Maestro Giancarlo Toran racconta la sua esperienza e la sua carriera di Maestro di scherma. Sesto episodio.
Cosa significa essere un Maestro di scherma? Non si tratta semplicemente di allenare un atleta, prepararlo per le competizioni, renderlo ogni giorno più forte e portarlo ai massimi livelli. Si tratta, soprattutto e prima di tutto, di crescere dei giovani, mostrar loro la bellezza di uno sport meno “facile” dei giochi con la palla, scoprire le loro inclinazioni e assecondarle. L’esperienza dei grandi Maestri italiani sta lì, accanto ai bambini come a fondo pedana dei campioni. Lo spiega molto bene Giancarlo Toran, Maestro della Pro Patria et Libertate Busto Arsizio e custode della memoria storia della scherma italiana. Toran ha iniziato a pubblicare sul suo profilo Facebook una riflessione stimolata da un suo ex allievo che ha al centro proprio il suo modo di concepire il ruolo di Maestro. È uno scritto che porta con sé una testimonianza straordinaria e per questa ragione, d’accordo col Maestro Toran, abbiamo scelto di pubblicarlo anche noi a puntate sul nostro sito.
Respira, e mettiti in testa una corona
Far crescere l’autostima… una parola! Ma bisogna passare ai fatti. Dalla teoria alla pratica. Ho fatto una piccola esperienza nel Judo, e anche quando sono passato alla scherma – ero ormai all’Università – ho mantenuto un notevole interesse per le discipline marziali orientali. Qualcosa ho trasferito anche nel mio sport, e forse la più importante di queste è l’attenzione per il respiro. Non mi sono contentato di leggere teorie: ho cambiato il mio modo di respirare, partendo dal diaframma, e ne ho guadagnato in salute, autocontrollo, e in altri campi.
Logico, quindi cercare di trasferire questa abilità agli allievi. Devo dire che funziona: la consapevolezza del respiro porta a comprendere come gli stati d’animo gli siano strettamente collegati. Cambi uno, cambiano gli altri, e funziona anche al contrario. Il respiro va da solo, non ha bisogno della tua attenzione per fare il suo lavoro. Se ci pensi, basta questo ad alterarlo. Se lo modifichi, cambia anche il tuo stato d’animo. Vale davvero la pena di lavorarci. Qui al nord, ho constatato, tirar fuori la voce è più difficile: si è abituati a considerarlo un atto di maleducazione. Eppure, in tutte le arti marziali, l’efficacia del gesto è potenziata dall’emissione della voce: che deve partire dal basso: il diaframma, ancora una volta. Con l’urlo si sblocca, e ci si sblocca, si butta fuori l’aria viziata dal fondo dei polmoni (perdona l’approssimazione, ma rende l’idea) ed entra aria nuova e rivitalizzante. È molto più produttivo dar da fare qualcosa, piuttosto che dar da pensare. A volte le due cose funzionano bene insieme. Dico spesso agli allievi di stare con la schiena dritta, ma mi accorgo che spesso non basta. Allora ricorro alle metafore. Ti racconto la mia preferita.
Capita spesso di vedere un atleta, dopo un assalto finito male, seduto con la schiena curva, e lo sguardo nel vuoto… l’atteggiamento del perdente, non solo di chi ha perso. Allora proviamo a cambiare le cose. Gli dico: “Guardati intorno, vedi la sala, cose e persone. Immagina che tutto questo sia tuo. Tu sei il re (o la regina d’Inghilterra, al femminile…) ed entri in questo spazio, dove ci sono i tuoi sudditi, le tue proprietà. Ti alzi e cammini, con la corona sulla testa: come lo fai? Com’è il tuo sguardo, come respiri, che posizione assumono la tua testa, la tua spina dorsale?” Vedo che incomincia a pensarci, l’idea gli piace, il suo atteggiamento si modifica. Gli dico di prendere la corona e mettersela in testa, e fare ‘come se’, tutte le volte che si sente un po’ giù. Sorride. In seguito, basterà incrociare il suo sguardo, accennare appena al gesto di mettersi in testa la corona, e qualcosa dentro di lui cambierà.
Genitori intelligenti
I genitori sono indispensabili, non occorre dimostrarlo. Quando se ne parla, pare che siano solo dei gran rompiscatole. Qualche volta è anche vero, ma con quello che investono di tempo e denaro, avranno pure il diritto di essere i tifosi dei loro figli! Dobbiamo averli come alleati, e non vederli solo come ostacoli. Eppure, giornate di lavoro possono essere vanificate da un commento malevolo, da una semplice alzata di sopracciglio, da un incoraggiamento, nelle intenzioni, che si rivela distruttivo e ansiogeno. Bisogna lavorare anche su di loro, e non sempre si ottiene il risultato voluto.
Quando insegnavo a Salerno c’era un giovanissimo mancino, molto bravo, con un papà invadente e molto negativo sul morale del figlio: che si sentiva obbligato al risultato, per non deluderlo, per non parlare delle discussioni a casa, di cui mi arrivava poi l’eco. Al campionato italiano dei Giovanissimi di quell’anno, a Roma, il papà riuscì a fare del suo peggio. Mi viene a chiamare, mentre seguivo altri atleti. Mi dice che il figlio, nel girone a sei di semifinale che portava alla finale, aveva già un piede fuori, con due sconfitte. Mi implora di aiutarlo: sapevamo entrambi che un ottimo risultato era alla sua portata, ma ormai era sull’orlo dell’eliminazione. Gli rispondo a muso duro che l’avrei aiutato, a condizione che lui andasse fuori dalla sala, lontano dalla vista del figlio. Cede. Si allontana. Il figlio fa le tre vittorie che servono, e passa. Poi, io partii per Busto, e lui riprese il controllo della situazione. Non aveva capito la lezione, e il figlio ne pagò le conseguenze.
A Busto Arsizio le cose andarono meglio. Il papà tifoso di Sara la incitava, strillava, e più lui si agitava, più lei si chiudeva, abbassava lo sguardo, e rendeva meno di quanto avrebbe potuto. Un giorno dovevamo andare ai campionati che davano i titoli italiani di terza e quarta categoria di fioretto. Col padre avevo stretto amicizia, e così decisi di chiedergli di restare a casa, per la prima volta. Non gli fece piacere, discutemmo, e alla fine acconsentì. La figlia vinse il titolo delle quarta categoria. Forse anche la fortuna ci mise la mano, ma il dato era indiscutibile. Il padre incassò il colpo, e mi disse che non sarebbe più venuto alle gare di scherma se prima non fosse stato sicuro di potersi controllare. E lo fece!
Giancarlo Toran | Biografia
Tarantino, ma oriundo napoletano per via del padre e della moglie, nota come la Toranna, ha incontrato la scherma quando, in genere, i più la lasciano: a 19 anni, all’Università, col Maestro Vittorio Bassetti, sciabolatore. Ha praticato con buoni risultati tutte le armi, prima da dilettante (classificato in tutte e tre, e prima categoria di spada e fioretto), poi come maestro (due titoli mondiali, ad Atene, spada e sciabola, e altre medaglie, e titolo italiano in tutte e tre), infine come Master (titolo italiano e un bronzo mondiale a squadre nella spada, ma da mancino). Dopo il diploma di Maestro presso l’Accademia di scherma di Napoli, nel ’75, ha insegnato per sei anni alla Nedo Nadi di Salerno, laureandosi in Scienze Naturali dopo essersi sposato, e dal 1980 presso la Pro Patria di Busto, dove dal 2012 è anche direttore del Museo dell’Agorà della scherma. Si occupa anche dei suoi due atleti non vedenti, entrambi vincitori di titoli italiani.
Presidente dell’Aims dal 1993 al 2008, si è occupato a lungo della formazione dei Maestri, ed ha scritto le “Dispense di spada”, poi adottate come testo per gli esami. Molte sono le pubblicazioni al suo attivo, per la Treccani, per la Fis (due volumi per celebrarne il centenario), oltre a numerosi articoli tecnici. Ultimi lavori, per ora, pubblicati di recente, una biografia della Maestra Marisa Cerani, e le memorie di Giuseppe Mangiarotti.
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Foto Giancarlo Toran/Facebook