In medio stat virtus

 

Ci abbiamo pensato a lungo, e ancora il dubbio ci rimane: è una finale persa o un bronzo guadagnato? Probabilmente la verità sta nel mezzo e, come spesso capita, è fatta di sfumature. Non nascondiamolo, dal fioretto femminile a squadre ci aspettavamo tutti di più.

In parte perché il Dream Team ci aveva abituati troppo bene, in parte perché il valore di queste ragazze lo conosciamo. Avevamo messo in conto di poter perdere una finale contro la Russia, che negli ultimi anni ha messo la freccia e ci ha superato, non di uscire con la Francia da una semifinale dominata per oltre metà incontro. Ed è forse proprio questo che fa male, aver visto il potenziale di questa squadra lungo l’arco di una gara intera, esclusi una manciata di assalti. Pochi, sì, ma decisivi per segnare la differenza tra una finalissima e una finalina.

Poi c’è l’altra faccia della medaglia, la capacità di vedere il bicchiere mezzo pieno. Arriva se si pensa a come Alice, Arianna, Martina ed Erica siano state capaci di rimettere insieme i pezzi dopo una sconfitta tanto dolorosa e si siano presentate con gli Usa nella loro migliore versione. Senza storia l’incontro per il bronzo, con le nostre quattro ragazze perfette. Sì, tutte e quattro, anche Arianna che aveva sofferto e subito la rimonta della Thibus, anche Erica che è stata gettata nella mischia per firmare con un parziale di 5-1 la sua meritatissima medaglia di bronzo.

Se ci pensiamo, è una squadra giovane sotto il profilo dell’esperienza, con tre esordienti alle Olimpiadi e una sola veterana. E non era scontato che potessero riprendersi dalla batosta ricevuta e tornare la schiacciasassi di un tempo, demolendo una squadra che giusto tre anni fa si era issata per la prima volta nella sua storia sul tetto del mondo e che poteva contare sull’apporto della freschissima campionessa olimpica individuale.

Ok, non era quello che speravamo e dirci pienamente soddisfatti sarebbe bugiardo e forse anche sminuente del valore che riconosciamo al fioretto femminile italiano. Che se è Dream Team ancora, deve accettare le critiche come gli elogi, rialzare la testa, guardare avanti. E riprendersi presto il posto che gli spetta, quello in cima al podio.

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Foto: Augusto Bizzi

Un bronzo costruito sulle macerie

 

 

Una medaglia olimpica si consuma nel giro di mezza giornata. Comincia nel mezzo di una notte italiana, quando ancora l’alba è di là da venire, e finisce poco prima dell’ora di pranzo. È un attimo, una girandola di emozioni che si brucia in fretta, tra picchi di ansia, ondate di ottimismo, sonno spezzato. Ma una medaglia olimpica ha radici che affondano in anni di lavoro, in un’attesa lunga e dura. Il bronzo della Nazionale di spada femminile è un monumento al lavoro di squadra costruito sulle macerie. Per raccontarlo e spiegarlo dobbiamo partire dal fallimento di un’Olimpiade mancata quando sembrava impossibile non prenderla, da una ferita che ancora stenta a rimarginare e il cui dolore riaffiora ogni volta che ci si pensa.

Un evento traumatico che ha chiuso definitivamente un ciclo di grandi talenti e che ha lasciato un punto interrogativo sul futuro. L’Italia della spada femminile ha cambiato volto spesso in un quadriennio che si è fatto quinquennio, fino a trovare la sua forma definitiva e cementarsi intorno alle quattro protagoniste di una medaglia olimpica che mancava da 21 anni, dall’esordio della specialità ai Giochi, ad Atlanta ’96. Rossella Fiamingo e Mara Navarria, punti fermi e trait d’union col ciclo precedente, e poi un gruppo intorno a loro che ha visto alternarsi una mezza dozzina di atlete prima di trovare la quadra finale con Federica Isola e Alberta Santuccio.

Federica è la più piccola di loro, deve compiere 22 anni e incidentalmente è stata anche la migliore. Così tanto la migliore che il ct Sandro Cuomo, prima della finale per il terzo e quarto posto, l’ha presa da parte e le ha detto: “Chicca, chiudi tu”. All’improvviso, una ragazza partita per i Giochi senza grandi pressioni, si è ritrovata a gestire la più grande di tutte: scelta per mettere il punto finale a un match che valeva una medaglia. Non è stato facile, anche perché la Zhu ci ha messo del suo con una rimonta furiosa. E mentre il tempo scorreva, con 8 secondi ancora da disputare e una sola stoccata di margine, Federica ha ritrovato se stessa e il suo coraggio, ha smesso di scappare all’indietro, ha fatto un passo in avanti per chiudere la misura all’avversaria, ha preso il ferro e trovato il bersaglio.

Ci sono almeno un paio di istantanee che ci spiegano questo risultato. La prima è quella di Federica Isola che scoppia in lacrime al termine del suo match, lasciando andare tutta la tensione accumulata, circondata dalle compagne che la abbracciano. La seconda è quella di loro quattro sul podio che si infilano a vicenda al collo la medaglia di bronzo, quasi a voler ribadire ancora una volta che non c’è io, tu o lei che regga, c’è solo noi, splendido paradosso di uno sport individuale che non può prescindere dalla squadra.

Ci sono stati i tempi delle analisi degli errori, della ricerca dei responsabili. Ci sono stati e ci saranno ancora. Non oggi però, oggi è il giorno dei ringraziamenti per chi ha costruito questo gruppo. E poi per loro quattro, le atlete, quelle che alla fine vanno in pedana e fanno la differenza, che vincono, cadono e si rialzano per vincere ancora. Sarebbe bello che tutti iniziassero a vederle per ciò che sono: persone, esseri umani con le loro forze e le loro debolezze, sostenendole tanto nel successo quanto nel fallimento. È utopia? Forse, ma ci piace immaginare che sia possibile.

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Foto: Augusto Bizzi

Regine senza corona

 

Sei Mondiali, dieci Europei, quarantatré vittorie in Coppa del Mondo. Zero ori olimpici individuali. Rileggere i palmares di Olga Kharlan e Sofya Velikaya, a poche ore dall’ennesimo assalto a Cinque Cerchi andato a vuoto, fa particolarmente impressione. Ed è chiaro che quella cifra, quella geometricamente più tonda di tutte, stoni in mezzo a tutta quella gioielleria. Regine senza corona, così le vediamo adesso, ed è difficile capire se sia più il dolore di Olga per un’eliminazione al primo assalto di giornata inopinata e impronosticabile o quello di Sofya per la terza finale consecutiva persa, da Londra a Tokyo, passando per Rio.

È qualcosa di semplicemente inspiegabile, con i grandi numeri o tutti i bei discorsi sulla pressione. Di vedere la Kharlan crollare così contro un’avversaria certamente inferiore e di assistere a un altro derby perso dalla Velikaya, non ce l’aspettavamo proprio. Avremmo piuttosto scommesso su una finale tra loro due, correttamente posizionate agli estremi opposti di un tabellone olimpico che si aspettava solo la più attesa delle finali.
Imperscrutabili sono le vie della scherma, che fa giri tortuosi per scrivere la sua storia, che non è necessariamente quella che noi poveri scribacchini siamo già convinti di dover raccontare.

E allora si aprono le questioni, i soliti discorsi, se Kharlan e Velikaya possano dirsi le più grandi di sempre della loro giovane specialità pur contando due titoli olimpici meno di Mariel Zagunis, uno in meno di Kim Ji-yeon, Yana Egorian, Sofia Pozdnyakova. Domanda leziosa, ad avviso di chi scrive, perché non c’è dubbio che la discussione non possa che tendere verso loro due.

Leggiamo, non senza apprensione, un post in cui la Kharlan si dice stanca, desiderosa di riposo, bisognosa di immaginare la sua vita senza una sciabola. Speriamo di interpretarlo male, perché l’ultima cosa che desideriamo e di vederla smettere così, a 30 anni, con l’orizzonte di un’altra Olimpiade tra tre. E ci piace immaginare che a Parigi, alle soglie dei 40 anni, ci possa essere anche la Velikaya, per un ultimo assalto, che magari sia un confronto diretto.

 

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Ognuno si scelga pure la preferita, ma non provate a sostenere che ne è esistita, finora, una migliore. Sarebbe una visione miope, falsata dall’abbaglio dell’oro di Olimpia, senza il quale, per quanto strano, si può comunque essere leggenda.

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