Campione olimpico a Rio 2016, argento a Tokyo, l’uomo delle grandissime occasioni lascia l’attività agonista per un problema cardiaco. Aneddoti e ritratto di un gigante dentro e fuori dalla pedana
Il più grande fiorettista italiano degli ultimi 20 anni (la definizione è del fratello Enrico, ma è impossibile non condividerla) si ritira. A un passo dalla terza Olimpiade, dopo che le prime due gli avevano portato un oro e un argento individuali, Daniele Garozzo è costretto a fermarsi da un problema cardiaco. Non ci saranno più gare per lui, non da atleta almeno. Ora, con qualche mese di anticipo sul previsto, si apre la seconda fase della sua vita, quella da medico, per realizzare completamente l’altro suo grande sogno.
Conosco Daniele da anni e non posso che definirmi fortunato per questo. Fortunato per aver potuto godere del suo talento, per averlo potuto raccontare, per aver assistito ad alcuni momenti importantissimi della sua carriera in prima fila. Su tutti, il ricordo più vivo è quello degli Europei di Tbilisi, in Georgia, nel 2017. Daniele era campione olimpico in carica e vinse quella gara dominandola. Quello che nessuno vedeva era che Daniele stava malissimo, era a pezzi, faceva fatica a stare in piedi. Era bravissimo a dissimulare il dolore e la fatica, lo è sempre stato, a Rio aveva vinto un oro olimpico dopo una notte in bianco, passata a vomitare.
Che non stava bene, quella sera a Tbilisi, me ne accorsi qualche minuto dopo l’ultima stoccata, quando mi avvicinai per intervistarlo per la Federazione dopo la vittoria. Mi chiese di poterla fare lì, seduto sulla pedana della finale. Non ne aveva più, aveva finito la benzina, e dopo sarebbe stato ancora peggio.
All’epoca, quando partivo in trasferta per supportare l’ufficio stampa della FIS, io, l’allora capo dell’ufficio stampa Giorgio Caruso e il videomaker Corrado Terranova avevamo l’abitudine di chiudere i palazzetti. Uscivamo per ultimi, diverse ore dopo gli atleti, i tecnici, le istituzioni e il pubblico. Quella sera, però, mentre andavamo via trovammo Daniele sdraiato per terra all’antidoping. Era lì da un paio d’ore, incapace di muovere un muscolo, in crisi di fame. Riuscimmo a rimediargli una specie di sandwich dal bar chiuso che pagammo la mattina dopo, ci disse che andava tutto bene e ci salutò. La mattina dopo sembrava perfettamente in forma.
Daniele sembrava invincibile (che senso fa parlare della sua attività da atleta all’imperfetto…), poteva barcollare ma non cadeva mai, una specie di Ercolino Sempre In Piedi con la maschera sul volto e il fioretto in mano. Con quella sua maniera di avanzare particolarissima che ha cambiato un’arma, ha vinto qualsiasi cosa: un’Olimpiade, quattro Mondiali, tre Europei, sei titoli italiani. Ma ridurre Daniele al suo palmares sarebbe fare un torto al grande uomo che è.
Persona di rara intelligenza, divertente e profondo, appassionato e dotato di una dedizione innata verso i suoi obiettivi, tanto in ambito agonistico quanto nella sua carriera accademica e professionale. Un predestinato non tanto (e soltanto) per il talento innato di cui genetica e caso l’avevano dotato, ma per vocazione, per quella tigna assoluta che a Montreaux 2015, al suo primo grande appuntamento a livello Assoluto, gli fece storcere la bocca per un argento continentale individuale arrivato dopo aver perso in finale contro Andrea Cassarà.
Ogni volta che ci siamo incontrati e parlati, di persona o per telefono, Daniele mi ha fatto ridere, ha stimolato le mie riflessioni sul presente e il futuro della scherma, persino quelle sulla mia professione, su ciò che è giusto scrivere e come è giusto scriverlo. Aperto al confronto, disponibile, gentile, praticamente incapace di dire “no” a una richiesta gentile ed educata. Un patrimonio della scherma italiana e mondiale tutta, dentro e fuori pedana, che questo mondo non può lasciarsi sfuggire in qualsiasi modalità lui voglia e sia disponibile a restarci. Perché oggi si chiude una pagina, ma da domani se ne aprirà un’altra altrettanto bella per lui. Bella come quell’ultima botta rincorsa lungo tutta la pedana contro Alexander Massialas, a Rio de Janeiro, nell’estate del 2016.
Twitter: GabrieleLippi1
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Foto: Augusto Bizzi